Dott. Marco Schneider
Psicologo e Psicoterapeuta

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Si può aiutare chi non vuole essere aiutato?

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Introduzione.

Spesso gli psicologi si trovano a ricevere richieste di aiuto che non provengono direttamente dalla persona interessata, ma da altri, come genitori, parenti o partner.
Ciò per esempio accade quando è un bambino o un adolescente a mostrare il disagio, o quando un membro di una coppia richiede un intervento psicologico per il partner (o ex partner), magari sperando così di veder cessare comportamenti negativi per sé, per la coppia o per i figli.
Non sono infrequenti nemmeno le situazioni nelle quali è un familiare, per esempio un fratello o un genitore di una persona adulta, che contatta lo psicologo per chiedere un aiuto per il proprio caro.

litigareLa caratteristica che accomuna tutte queste situazioni è che di regola la persona interessata quasi mai sente una esigenza personale di

cura, oppure la sente, ma non per sé. Tipica è l’affermazione “non sono io che ho bisogno, ma tu. Curati tu!”.

Una ultima eventualità riguarda il fatto può essere una Istituzione, per esempio un Tribunale, a decidere che per una data persona è necessario seguire un percorso psicologico.
In questo caso lo Psicologo si trova a dover dialogare con qualcuno per il quale altri hanno deciso cosa era giusto per il suo bene.

Il fatto che non sia il “diretto interessato” a rilevare la necessità di un percorso psicologico per sé, ma altri, non significa che il problema non esista o che, visto che la persona non è motivata, non sia possibile fare nulla. Anzi.Spesso succede proprio che le persone maggiormente sofferenti non riescano a focalizzare il proprio disagio, lo neghino persino, e/o che comunque non siano immediatamente disponibili a seguire un percorso di cura.
E allora sono altri che si attivano al posto loro.

 

Cosa fare per aiutare chi non vuole essere aiutato?

Vale la pena di fare delle distinzioni a seconda delle varie situazioni che possono presentarsi.
Fare queste distinzioni può aiutare i familiari di questi pazienti “sofferenti ma non collaboranti” ad adottare atteggiamenti che possono realmente essere utili ai propri cari.

 

Se il soggetto è un adulto.

Diciamo subito che di fronte ad un maggiorenne e in assenza di una qualsiasi “prescrizione” alla cura (per esempio da parte di un Giudice) o di una chiara ed inequivocabile urgenza sanitaria, la difficoltà di iniziare un percorso psicologico con una sedie persona non motivata può essere piuttosto elevata.
In questi casi infatti un soggetto adulto che rifiuta le cure non può essere (salvo in rarissime condizioni) costretto a curarsi, soprattutto poi se non arreca visibile e tangibile danno a sé o ad altri.
In questa categoria di situazioni rientrano purtroppo anche quelle persone che giocano molto ai videopoker o alle scommesse, o bevono molto senza essere violenti, o persone che non intendono impegnarsi nella ricerca di un lavoro e “buttano via” la loro esistenza semplicemente lasciando scorrere un giorno dopo l’altro.
Accade spesso che in questi casi il (comprensibile) senso di impotenza sperimentato dai familiari porti chi sta vicino al paziente a cercare in tutti i modi di motivare e spronare il proprio caro a reagire, magari in modo sempre più intenso.
L’esperienza clinica dice che una certa insistenza da parte dei familiari di un paziente affinché egli si curi o abbandoni comportamenti negativi è normale ed anche positiva, mentre se questa insistenza diventa eccessiva e/o dura troppo a lungo, allora accade che il risultato diventa “paradossale”, nel senso che aumentano piuttosto che diminuire le resistenze del paziente ed il suo ostinarsi a non voler vedere le ragioni e le conseguenze del proprio agire (né tantomeno ammettere eventuali aree di sofferenza in sé).

 

Quando è presente un conflitto sulla cura.

Diverse sono le situazioni “complicate”, che arrivano dallo psicologo proprio con un conflitto tra il paziente ed i familiari rispetto ad una esigenza di cura.
In questi casi se non cambiano gli atteggiamenti di tutti, le speranze di intraprendere con successo un percorso terapeutico con “l’interessato” sono decisamente basse: una cospicua quota di pazienti infatti, sentendo attorno a sé una crescente pressione psicologica a “farsi curare”, tenderà all’opposto ad accentuare i propri comportamenti sintomatici piuttosto che a diminuirli, e sarà sempre meno disponibile ad intraprendere un percorso psicologico.
Evitare quindi di contribuire ad alimentare una situazione come quella sopra descritta è certamente un buon comportamento da tenere da parte dei familiari.

 

Quale soluzione? Lasciare perdere e non fare nulla?

Certamente no, anzi. 
Cominciamo con il dire che se oltre al problema presentato dalla persona vi è anche un conflitto familiare legato al fatto che l’interessato non vuole farsi curare, allora questa famiglia si ritroverà non con uno, ma bensì con due problemi, quello espresso dal proprio caro ed il conflitto con lui. Ciò porterà ad un aumento consistente della sofferenza di tutti.
Risolvere queste situazioni al meglio è possibile, attraverso un passaggio molto importante che è il coinvolgimento nella terapia (soprattutto nella prima fase) anche delle persone stesse che contattano lo psicologo, lavorando con loro per alcuni incontri proprio sulle ragioni del rifiuto del loro caro a farsi curare.A volte i “pazienti”, vedendo che i loro familiari si attivano loro stessi per primi con lo psicologo, mettendosi quindi direttamente “in discussione”, si convincono ad abbassare un po’ le loro difese, ed accettano di svolgere alcuni colloqui familiari e poi anche individuali.

colpevoleVa però prestata attenzione ad un elemento importante: pensare che il conflitto familiare in questi casi derivi in via esclusiva dal fatto che una data persona non vuole farsi curare (e che quindi se lo facesse tutto si sistemerebbe) non è corretto, in quanto in realtà le dinamiche in gioco sono spesso molto complesse e riguardano in senso più ampio le modalità con le quali ci si tratta in famiglia, come si comunica e come ci si vede l’un l’altro.

Quello che si può dire è che trattando il conflitto familiare non migliora solo questo aspetto, ma spesso la sintomatologia stessa del paziente si modifica sensibilmente in meglio.
Questo risultato conferma indirettamente il fatto che tanti tipi di disagio sono molto sensibili a variabili di tipo relazionale, e che la qualità delle relazioni, degli affetti e della comunicazione in famiglia ha un effetto rilevante su di essi, anche se non ne è necessariamente la causa.
È noto da tempo che le sedute “congiunte” condotte con i pazienti resistenti alla cura e i loro familiari sono molto utili in quanto hanno soprattutto il pregio di migliorare la comunicazione tra il paziente ed i familiari, permettendo anche di chiarire le singole posizioni in merito a tante cose e a tanti episodi, del presente e del passato.

E se si riesce a parlarsi, si ha meno bisogno di stare in conflitto, e si possono accettare di più i consigli.

 

Il ruolo del dialogo difficile.

Tante famiglie nelle quali vi è un paziente resistente alla cura mostrano spesso una fatica “storica” nel dialogare; in questi casi incomprensioni e conflitti più o meno manifesti e difficoltà a comprendersi e a sostenersi vicendevolmente rappresentano uno “standard” relazionale nella famiglia abbastanza consolidato.
Ciò, unitamente alla indisponibilità della persona a farsi curare, moon porta ad un clima emozionale talmente teso da non permettere nessun tipo di reale discussione e chiarificazione, anche rispetto al disagio stesso del familiare sofferente.
A conferma di ciò vale la pena precisare che spesso i pazienti resistenti alla cura riferiscono di vivere come “intrusivi” i tentativi dei familiari (il coniuge, il genitore, il fratello, ecc..) di farli ragionare sulla propria situazione e iniziare una cura, e “per difesa” si arroccano sulle loro posizioni, quasi più per segnalare il loro differenziarsi dalla situazione vissuta in casa che per una reale convinzione di non aver bisogno di aiuto.

 

Come i familiari possono approcciarsi ai colloqui con lo psicologo?

Spesso nei familiari che accettano l’invito a svolgere i colloqui con lo psicologo è presente la convinzione di fondo che comunque è “solo” il loro caro ad avere difficoltà, e che alla fine è solo lui che deve essere coinvolto nelle sedute.
Questo è un altro di quegli atteggiamenti che risultano controproducenti, e che andrebbero evitati.
L’approccio migliore da adottare è invece quello di pensare in modo più allargato, ritenendo che il problema del paziente sia in realtà un “problema più ampio”, di tutta la famiglia, che si esprime certamente nel sintomo del paziente, ma anche nel conflitto familiare. E che se in un dato momento non si può affrontarlo trattando direttamente il “sintomo” (ovvero il comportamento negativo del “paziente”), magari è possibile farlo trattando, da un’altra angolazione, il conflitto in famiglia derivante dal sintomo stesso.
Ecco perché quindi si dice che sia “il paziente” che “l’inviante” (non importa se è un coniuge, un genitore o un fratello ecc..) hanno un problema in comune, che non è solo il disagio espresso da un componente della famiglia, ma più in generale è il conflitto che c’è in famiglia.
L’ottica quindi più utile con la quale dovrebbero essere affrontate le difficili situazioni che vedono un membro sofferente di una famiglia non disponibile a curarsi è di considerare il sintomo come una delle possibili manifestazioni di un problema più grande (il conflitto), e che trattando il conflitto, anche il problema “sintomo” otterrà importanti benefici.
Se si riesce a pensare secondo questa ottica, si può dire che sia l’inviante che il paziente sono allo stesso modo attori protagonisti nel problema, ma anche indispensabili alla sua soluzione, e un esito positivo della terapia porterà vantaggi a tutti.

 

Quali sono i vantaggi una ottica di questo genere?

GocciaI vantaggi sono che se la conflittualità riesce ad ammorbidirsi, “l’inviante” riuscirà a non avere più di fronte la sofferenza del proprio caro senza potervi fare nulla (proteggendo così se stesso o altri familiari dalla negatività “indiretta” dei sintomi del paziente), mentre il “paziente” potrà esprimere le proprie ragioni e i motivi che lo spingono a mantenere vivo il sintomo, ottenendo forse anche di venire compreso nelle sue idee e nei suoi punti di vista.
Va detto che una situazione di dialogo sano, sincero e protetto in famiglia toglie potenza e senso ai sintomi psicologici, aiutando le persone sofferenti che li “esprimono” ad abbandonare comportamenti inadeguati per sé e gli altri.
Quindi da un lavoro psicologico congiunto tra paziente e familiari tutti hanno molto da guadagnare.

 

L’importanza di costruire un clima di positivo dialogo.

È opinione comune tra gli psicologi che riuscire a costruire un clima emotivo positivo di confronto e dialogo tra chi “soffre” e chi si preoccupa (quindi in famiglia), molto spesso risolve anche gran parte dei sintomi stessi del paziente, in quanto una importante quota di sofferenza e malessere nei sintomi psicologici è sempre legata a difficoltà di comunicazione con i familiari. 
Ottenere questo risultato è possibile solo se l’inviante stesso, di fronte ad un familiare che non accetta “di andare in terapia da solo” o non accetta del tutto la terapia, sia disponibile in modo sincero ed autentico a mettersi egli stesso e per primo in gioco, per migliorare la situazione almeno sul versante emotivo e relazionale.

 

Se il soggetto è un adolescente.adolescenti

L’approccio sopra descritto è molto utile anche nel caso in cui la persona per la quale si richiede un consulto psicologico è un adolescente. Spesso infatti gli adolescenti che mostrano segni di sofferenza psicologica (se non addirittura dei sintomi), vivono le preoccupazioni dei familiari in modo negativo, come una intrusione nel loro modo di esprimersi, di vivere le cose e di diventare grandi.

In queste situazioni se i familiari (genitori, ma anche fratelli, nonni, ecc..) decidono di mettersi in gioco non tanto per “cambiare” il loro ragazzo, quanto per capire come migliorare la relazione con lui, ho spesso visto aprirsi degli spazi inaspettati di collaborazione con l’adolescente, tanto che diversi di essi, dopo aver visto il sincero impegno dei familiari e aver potuto convincersi della loro voglia di mettersi davvero “in sintonia” con loro, hanno accettato (e addirittura chiesto) di poter avere dei colloqui individuali per “parlare” di loro stessi, “completando” la terapia.
L’idea che molte volte indispone gli adolescenti, e che li rinforza nel chiudersi in loro stessi e nei loro comportamenti sintomatici, oppositivi o sfidanti, è quella di non essere riconosciuti dai loro familiari come “soggetti” capaci di pensare e degni di essere ascoltati, venendo invece visti solo come “oggetto” di cure, incapaci di valutare in modo utile e sensato la realtà che li circonda e i loro stati d’animo.
In altre parole il primo passo affinchè gli adolescenti possano sentirsi liberi di “aprirsi” e di raccontarsi è di far capire loro che non li si considera più come “bambini” (ovvero per i quali le cure e i bisogni sono decisi dall’altro) ma come “adulti in crescita” (ovvero capaci di esprimere sentimenti e idee degne di attenzione).
Mi sono ormai convinto che un adolescente sofferente sul versante psicologico ma non “collaborante” sia molto spesso un adolescente che viene trattato ancora secondo modalità infantili, che sente di non essere ascoltato dai propri familiari come vorrebbe e che si ribella a tutto questo.
In proporzione, le situazioni nelle quali il ragazzo ha bisogno di uno spazio “privato” dove confidare allo psicologo i propri segreti o le proprie paure sono molto minori di quelle nelle quali l’adolescente ha solo bisogno di migliorare la comunicazione con i propri familiari, venendo riconosciuto nella sua “nuova” natura di soggetto in crescita.
Riuscire a costruire un “setting” (ovvero un modo di lavorare con lo psicologo) che vede la partecipazione attiva e sincera dei familiari oltre che del ragazzo, è la mossa vincente.

 

Quando chi decide la terapia è un Tribunale.

Nel caso di una prescrizione di un percorso psicologicotribunale che venga da una Istituzione (per esempio da un Giudice nelle situazioni di separazioni conflittuali o a seguito di utilizzo di sostanze stupefacenti, o nel caso di adolescenti che hanno commesso dei reati, ecc..) certamente il lavoro dello psicologo deve essere calibrato in modo preciso: spesso infatti le persone che arrivano con questo tipo di indicazione “coatta” non ritengono di avere necessità di un sostegno psicologico, né tanto meno di una psicoterapia, e vivono come una imposizione lesiva della loro libertà di autodeterminarsi la scelta di un Giudice di inviarli da uno specialista.
In questi casi lo psicologo dovrà cercare di lavorare con il suo “cliente” costruendo una “alleanza di lavoro” che tenga conto del particolare percorso che la persona ha fatto per giungere a lui, senza immaginare che questo invio “coatto” si trasformi per forza di cose in un percorso spontaneo. Anzi sarà proprio la particolarità del contesto (e la assenza di una esplicita motivazione alla cura) che dovranno essere valorizzate, per diventare l’asse stesso della terapia. Nello specifico sarà utile comprendere con il “cliente” le ragioni che hanno condotto, secondo lui, il Giudice a prendere quella specifica decisione, individuando poi quali comportamenti saranno da evitare per non subire ulteriori provvedimenti da parte di terzi.
In altre parole la terapia dovrà basarsi da un lato sulla comprensione delle “ragioni” del Giudice, e dall’altro sulla modifica da parte del “cliente” di quei comportamenti che hanno indotto il Giudice stesso a prescrivergli una terapia coatta.

 

Cosa succede quando si viene “costretti” a fare un percorso psicologico.

Ho deciso di dare alcuni elementi di “teoria della pratica” delle psicoterapie coatte, perché spesso tali meccanismi si ritrovano anche in situazioni che nulla (o poco) hanno a che fare con la giustizia: mi riferisco per esempio a tutte quelle situazioni nelle quali un familiare “impone” ad un altro un percorso psicologico a soloseguito di atti ritenuti fortemente lesivi o scorretti e quale condizione per non rompere la relazione (per esempio un coniuge che “impone” all’altro una psicoterapia dopo un tradimento quale condizione per evitare la separazione, oppure quando di fronte alla scoperta di abitudini legate al gioco d’azzardo o alla assunzione di alcool o sostanze, i familiari “impongono” al soggetto una terapia quale condizione per evitare il disfacimento della famiglia o una denuncia, o ancora quando a seguito della scoperta da parte di un genitore di comportamenti devianti del figlio, a quest’ultimo viene “imposta” una psicoterapia per evitare conseguenze più gravi, come per esempio “il collegio” o punizioni importanti).
Sarà allora ancora a partire dalla comprensione delle ragioni del gesto compiuto e dalla elaborazione di azioni “riparative” verso la “vittima” dei propri gesti (il coniuge, un familiare, un collega di lavoro, ecc..) che si potrà arrivare a definire obiettivi terapeutici utili per il “paziente” ed il suo sistema familiare, mirati al risanamento della relazione ma anche alla modifica di quegli elementi che presumibilmente hanno determinato l’agito deviante.
Anche in questi casi però senza il coinvolgimento forte dei familiari la motivazione del paziente rischia di essere piuttosto superficiale, nel senso che non appena la situazione si è leggermente ricomposta (perché la persona è stata “perdonata” o perché alcuni minimi cambiamenti sono stati effettivamente messi in atto) subito le sedute vengono sospese ed il lavoro con lo psicologo termina.
A questo segue purtroppo a volte una ricaduta, che ben difficilmente però ricondurrà il paziente dallo psicologo, dato che anche per i familiari “questa strada” è già stata tentata una volta, ma “senza successo”.
Lavorare con la persona e con i familiari permette quindi di aiutare tutti a comprendere il significato di una relazione difficile, che molte volte porta a sofferenze che in un modo o nell’altro tendono, se non curate, a riproporsi.

 

Conclusioni.

In tutte le situazioni nelle quali vi è un “paziente” non motivato e non disponibile a farsi curare, l’apporto dei familiari risulta vincente per produrre un positivo cambiamento e sbloccare situazioni anche molto complesse e compromesse.
Se i familiari di un “paziente difficile” sono infatti disponibili ad impegnarsi in prima persona dando il proprio contributo attivo nell’affrontare e risolvere il problema del loro caro, allora le percentuali di successo di un percorso psicologico aumentano sensibilmente, in quanto spesso oltre al sintomo conclamato del paziente in queste famiglie è presente un conflitto relazionale anche importante, sul quale il sintomo trova una base di appoggio, e che se trattato può lenire di molto l’intensità dei sintomi stessi presentati dal “paziente”.
Risolvere il conflitto familiare aiuta quindi in modo decisivo l’aggancio con il paziente difficile, e in molti casi arriva anche ad influire sensibilmente sul sintomo stesso.
Aiutare un proprio caro in difficoltà ma resistente alle cure è dunque possibile, a patto di essere disponibili a mettersi in gioco in modo autentico e di voler risolvere quel conflitto familiare che molto spesso si genera in tante situazioni di sofferenza e malessere psicologico.

 

 

Dott. Marco Schneider,
Psicologo e Psicoterapeuta sistemico-familiare,
Esperto di psicologia relazionale, della coppia e della famiglia
Rho

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