Il fenomeno della resistenza del paziente al cambiamento: un’analisi storica e critica attraverso i vari approcci psicologici

29–43 minuti

“The phenomenon of patient resistance to change: an historical and critical analysis through various psychological approaches”.

Marco Schneider[1], Carlotta Rota[2]

www.psicologo-rho.com

m.schneider@psicologo-rho.com

Riassunto.

Il tema dei comportamenti di resistenza del paziente in psicoterapia è uno dei più complessi e sul quale molto è stato scritto. L’interesse degli studiosi per questo tema è da ricondurre al fatto che tale comportamento impatta significativamente sulle modalità di condurre il percorso psicoterapico e sui suoi risultati. 

La letteratura psicologica ha soprattutto attenzionato la resistenza del paziente durante la terapia e molto meno il rifiuto del paziente ad iniziare un percorso psicologico, ambito in realtà oggi sempre più rilevante nella fenomenologia generale del disagio psichico.

In questo lavoro verranno esplorate alcune tra le più significative interpretazioni della resistenza del paziente durante la terapia secondo diversi approcci psicologici, arrivando a definire come oggi tale comportamento è inteso dalla psicologia sistemico-relazionale.

Verrà anche proposta una lettura della resistenza del paziente verso il cambiamento e la terapia che presenta alcuni elementi di significativa originalità.

Abstract.

The topic of patient resistance in psychotherapy is one of the most complex and studied. Authors’ interest on this topic stems from the fact that such behavior significantly impacts on the way psychotherapy is conducted and its outcomes. Psychological literature has focused primarily on patient resistance during therapy, much less on patient refusal to engage in psychological therapy, that is an increasingly relevant area in the general phenomenology of mental distress. This paper will explore some of the most significant interpretations of patient resistance during therapy according to various psychological approaches, aslo defining how this behavior is currently considered by systemic-relational psychology. It will also propose a reading of patient resistance to change and therapy that presents some significant original elements.

La psicoanalisi.

Le prime concettualizzazioni sui comportamenti di resistenza vengono dalla psicoanalisi, la quale per prima nel campo della psicoterapia si è posta il problema di comprendere le possibili ragioni alla base delle quali un paziente può non voler cambiare. In modo articolato la psicoanalisi ha anche tentato nel tempo di includere nella comprensione della resistenza del paziente il posizionamento e l’atteggiamento del terapeuta.

Il primo a parlare di resistenza è stato Freud, che la definì come l’insieme delle forze psichiche che si oppongono al portare alla coscienza contenuti inconsci dolorosi o conflittuali. Ad esempio in Inibizione, sintomo e angoscia (1926), Freud distingue varie forme di resistenza:

  • la resistenza dell’Io, legata ai meccanismi di rimozione;
  • la resistenza di traslazione, che si manifesta nel rapporto con l’analista;
  • il vantaggio secondario del sintomo;
  • la resistenza legata alla compulsione a ripetere;
  • la resistenza del Super-Io, legata al senso di colpa.

Freud introduce inoltre il concetto di “reazione terapeutica negativa” (1923) intendendo con ciò un fenomeno per il quale il paziente ostacola il trattamento proprio nel momento in cui vede dei concreti miglioramenti. La psicoanalisi freudiana considera la resistenza un fenomeno ostativo la guarigione e pertanto ritiene indispensabile un processo di “working through”, ovvero di elaborazione graduale.

Un autore di area freudiana relativamente moderno che riteniamo di citare qui è Ralph Greenson (1976), il quale ritiene che le resistenze del paziente si manifestino come difese nei confronti dell’analisi, dell’analista e del proprio “Io ragionevole”: Greenson infatti vede la resistenza come un concetto operativo tale per cui il paziente si oppone al lavoro analitico in vari modi. Nella sua classificazione riprende l’idea freudiana delle differenti forme di resistenza, incluse le difese dell’Io e la resistenza di traslazione, e pone particolare attenzione alla resistenza come fenomeno clinico continuo: nella sua visione Greenson ritiene che l’analisi sia fin dall’inizio un lavoro “sulle resistenze e sul transfert” (dalla prima all’ultima seduta). Una manifestazione clinica che questo autore analizza in particolare è il silenzio: il paziente che tace può usare il silenzio come strategia per inibire il flusso di materiale psichico nella seduta. Distinguere se un silenzio è resistenza o comunicazione clinicamente significativa è per Greenson un compito diagnostico dell’analista.

Malan (1976) descrive la resistenza come manifestazione dell’ansia che si interpone tra l’emozione e la consapevolezza ed identifica due triangoli: quello del conflitto (sentimento – ansia – difesa/resistenza) e quello delle persone (paziente – figura attuale – figura passata). La resistenza è vista da questo autore come difesa attiva che protegge dall’angoscia evocata dal transfert.

Davanloo (1990) sviluppa il concetto di “barriera della resistenza”, ovvero l’insieme delle difese che impediscono l’esperienza diretta dell’affetto rimosso. Il terapeuta per Davanloo deve identificare, sfidare e smantellare sistematicamente tali resistenze fino a raggiungere la “rottura dell’inconscio”.

Un autore di orientamento psicoanalitico che si è molto occupato di resistenza è certamente Otto Fenichel, figura chiave dell’ego-analisi, il quale riteneva che la resistenza non fosse solo legata a contenuti inconsci ma anche a funzioni più generali dell’Io, di tipo difensivo, attivata dal contatto con la realtà: secondo questo autore l’Io agirebbe come mediatore tra desideri, difese e realtà e la resistenza può manifestarsi attraverso diversi meccanismi difensivi, che egli definisce “pre-contenuto” (1946). Sul piano metodologico Fenichel ritiene che le interpretazioni non debbano essere orientate all’andare sempre “in profondità” (ovvero verso i contenuti inconsci), ma talvolta è importante che siano “più superficiali”, lavorando in questo senso più su aspetti dell’Io che già resistono: la distinzione tecnica tra “difesa prima dell’istinto / difesa prima del contenuto” è un suo contributo (Fenichel, 1946, Op. Cit.). Fenichel afferma che quando un’interpretazione risulta inefficace, l’analista dovrebbe chiedersi: “Come avrei potuto interpretare più superficialmente?” (cioè lavorare più vicino all’Io).  Fenichel adotta inoltre il concetto di anticatessi / controcatessi (anticathexis / countercathexis) (1946, Op. Cit.) per spiegare come l’Io vincola energie psichiche per contenere le spinte inconsce, e che queste energie possono fungere da resistenza quando l’analisi tenta di liberarle.

Anna Freud sviluppa in modo sistematico la teoria dei meccanismi di difesa dell’Io, concettualizzando la resistenza come manifestazione dell’attività difensiva dell’Io (1936). Per questa autrice resistenza e difesa sono due manifestazioni dello stesso processo: l’Io usa meccanismi difensivi per proteggersi dall’angoscia generata dalle pulsioni o dai conflitti, e questa attività difensiva si manifesta come resistenza al processo analitico.

Un altro autore di rilievo di area psicodinamica è Hartmann, il quale distingue tra resistenze “difensive” e resistenze “strutturali”. Partendo dalla teoria dell’Io, che egli riconosce come struttura autonoma, sostiene che alcune resistenze non derivino da conflitti pulsionali, quanto piuttosto da funzioni autonome dell’Io (1939).

Per Melanie Klein la resistenza non è solo una difesa dell’Io ma un’espressione delle ansie persecutorie e depressive che emergono durante il transfert (1932). La resistenza viene vista da questa autrice come parte della dinamica tra pulsioni di vita e di morte e come espressione della posizione schizo-paranoide o depressiva. Nei bambini per la Klein la resistenza si manifesta attraverso il gioco ostinato, il silenzio o l’acting out come modalità di difesa contro l’angoscia.

Otto Kernberg, nella teoria delle relazioni oggettuali e nella psicoterapia focalizzata sul transfert – TFP (1995), considera la resistenza come una manifestazione della struttura borderline o narcisistica di personalità. La resistenza deriva da scissioni e identificazioni proiettive e si manifesta nella relazione terapeutica come ripetizione di pattern relazionali patologici.

Ferenczi, addirittura prima degli anni ‘30 (1928), è il primo autore a parlare di resistenza come fenomeno relazionale e comunicativo. Egli sottolinea come la resistenza nasca non solo da forze intrapsichiche del paziente ma anche dal modo in cui l’analista si pone in terapia. Per tale ragione introduce il concetto di “elasticità della tecnica”, ovvero la capacità dell’analista di adattarsi empaticamente alle resistenze del paziente per non rinforzarle.

Lacan (1958) sulla linea di Ferenczi ribalta la concezione freudiana del concetto di resistenza ritenendo che non sia il paziente a resistere, bensì l’analista. Per Lacan la “resistenza del soggetto” è un effetto della posizione dell’analista e del modo in cui questi struttura il discorso. La resistenza nasce per Lacan quando l’analista non ascolta il discorso dell’inconscio o quando impone il proprio senso, interrompendo così l’emergere del significante inconscio.

Racker (1957, 1968) esplora le resistenze del controtransfert, concetto quasi inesistente in letteratura prima del suo lavoro. Racker sottolinea che l’analista, identificandosi con il paziente, può sviluppare resistenze proprie (controtransfert “complementare” o “concordante”) che interferiscono con l’interpretazione.

Franz Alexander (1946) sviluppa la teoria della “esperienza emozionale correttiva” e vede la resistenza non solo come difesa ma anche come opportunità terapeutica. La resistenza è in questo senso interpretata come una forma di apprendimento patologico da modificare attraverso una nuova esperienza relazionale nel setting analitico.

L’ultimo autore psicodinamico qui considerato è Abbas (2012), il quale propone il ISTDP, un approccio terapeutico psicodinamico breve, attivo ed esperienziale, che ha l’obiettivo di facilitare rapidamente l’accesso e l’elaborazione delle emozioni inconsce che sono bloccate o evitate dal paziente, superando la resistenza e permettendo un cambiamento profondo anche in tempi relativamente brevi. Egli propone strumenti di valutazione come il “Resistance Type and Level” sostenendo che il riconoscimento precoce della resistenza (verbale, emozionale o comportamentale) consenta un intervento calibrato e una riduzione rapida dell’ansia.

Nel complesso è possibile notare come l’evoluzione del pensiero psicodinamico sulla resistenza mostri un progressivo spostamento dalla sua interpretazione originaria come mera difesa intrapsichica rivolta a evitare contenuti dolorosi ad una lettura sempre più relazionale ed esperienziale. Come abbiamo visto Freud aveva sottolineato la funzione di protezione dell’Io, con l’obiettivo terapeutico di “attraversarla e superarla” attraverso l’analisi, e gli autori dell’ego-psicologia e della psicologia delle relazioni oggettuali hanno messo in luce il ruolo delle strutture dell’Io, dei meccanismi difensivi e delle configurazioni relazionali interne, mentre altri autori psicodinamici si concentrano sulle dinamiche della relazione terapeutica arrivando a concepire la resistenza come fenomeno comunicativo e sostanzialmente relazionale (come nel caso di Ferenczi o della prospettiva lacaniana, che problematizza la posizione stessa dell’analista).

La psicologia umanistico – esperienziale.

Uno tra gli autori più noti di questo approccio è Carl Rogers (1951), il quale rifiuta l’idea di resistenza come “opposizione”, interpretandola invece come reazione naturale dell’organismo quando il terapeuta offre solo interpretazioni e non sicurezza, empatia ed accettazione.
Sulla linea di Rogers, Gendlin (1978) riformula il concetto di resistenza intendendola come interruzione del processo di focusing: non si tratta per questo autore di un rifiuto del paziente quanto di un segnale corporeo che indica che il cliente non è ancora pronto o non trova parole adeguate per un’esperienza interna. Invece di “interpretare” la resistenza, Gendlin suggerisce che il terapeuta aiuti il cliente a restare in contatto con proprio il “felt sense”, cioè il senso corporeo globale dell’esperienza.

Yalom considera la resistenza come una difesa contro l’intimità e la consapevolezza esistenziale (Yalom, 1985). Questo autore si concentra anche sul gruppo terapeutico, ritenendo che la resistenza sia spesso collettiva: i membri del gruppo possono “resistere” insieme al cambiamento o al contatto autentico. Lavorare sulla resistenza significa per Yalom esplorare il “qui e ora” relazionale nel gruppo o nella diade terapeutica.
Greenberg (2002), esponente della Emotion-Focused Therapy (EFT), riformula la resistenza come una forma di “processo di evitamento emotivo”. Il terapeuta per questo autore non deve interpretarla come opposizione, ma come segnale di protezione contro emozioni non elaborate. L’intervento terapeutico in questo caso consiste nel “validare la protezione” e accompagnare il cliente verso un’esperienza emotiva più profonda.

Nel complesso gli approcci umanistico–esperienziali de-patologizzano la resistenza interpretandola non come opposizione al terapeuta quanto piuttosto come forma di protezione dell’esperienza interna. Rogers la collega alla mancanza di sicurezza e accoglienza nella relazione terapeutica; Gendlin la intende come difficoltà a contattare il felt sense; ; Yalom come difesa dall’intimità; Greenberg come evitamento emotivo. In questa prospettiva la resistenza non va superata ma validata e accompagnata, poiché indica il punto in cui il paziente sta cercando di salvaguardare la propria continuità emotiva.

La Gestalt.

Rispetto a questo orientamento un importante lavoro è quello di Fritz Perls (1951), il quale considera la resistenza non come un ostacolo da superare quanto come una interruzione del contatto nel campo organismo/ambiente. Per questo autore ogni resistenza (introiezione, proiezione, retroflessione, deflessione, confluenza) rappresenta un tentativo, sebbene distorto, del paziente di regolare il contatto con l’ambiente; in questo senso la resistenza ha una funzione sia adattiva che comunicativa. Il terapeuta per Perls non deve “interpretare” la resistenza quanto piuttosto portarla nel qui e ora, rendendola esperibile.

La psicologia cognitiva e comportamentale.

Questo approccio definisce la resistenza in diversi modi a seconda dei vari autori. Ad esempio Ellis (1962) la considera come un fenomeno cognitivo: non un’inconscia opposizione dunque, ma una rigidità delle credenze irrazionali e un attaccamento emotivo ad abitudini disfunzionali. Per questo autore la resistenza nasce da convinzioni come “non dovrei cambiare”, “è troppo difficile”, “non posso sopportarlo”, dal timore del fallimento e dalla mancanza di responsabilità personale.

Beck (1979) sostituisce il concetto psicoanalitico di resistenza con quello di “non collaborazione” o di “schema maladattivo che protegge convinzioni nucleari”. La resistenza è interpretata da questo autore come un pattern cognitivo-emotivo che serve a preservare la coerenza dello schema del Sé. In questo contesto il dialogo socratico rappresenta lo strumento clinico privilegiato per affrontare la resistenza con il quale, attraverso domande esplorative e non direttive, si definisce l’obiettivo terapeutico che non è “forzare” il paziente, quanto esplorare empaticamente le motivazioni che sostengono la sua non collaborazione.

Un altro importante autore che qui citiamo è Meichenbaum (1977), creatore del Self-Instructional Training e della Stress Inoculation Therapy. Egli introduce una visione collaborativa della resistenza, la quale indicherebbe una discrepanza tra il linguaggio del terapeuta e quello del paziente, centrando dunque l’attenzione su un problema di engagement e di alleanza, non di difesa. Meichenbaum parla di “collaborative empiricism” ed indica la necessità che il terapeuta, per ridurre la resistenza, negozi con il paziente gli obiettivi della terapia.

Burns (1989, 2020) introduce l’idea di “agenda segreta di non cambiamento”. Secondo questo autore la resistenza è una espressione di valori, paure e benefici secondari: il paziente teme che cambiare implichi la perdita di qualcosa di importante per sè (protezione, identità, controllo) e per tale ragione “resiste”. Egli utilizza il “Paradoxical Agenda Setting”, una tecnica che esplora empaticamente i motivi per cui il paziente potrebbe non voler migliorare.

Young (2003) vede la resistenza come attivazione di modalità di coping maladattive (es. distacco, sottomissione, ipercontrollo) non intendendola come opposizione ma come manifestazione di schemi precoci disfunzionali che proteggono dal dolore emotivo. Il lavoro terapeutico mira a “disattivare” queste modalità attraverso la relazione empatica e il “limited reparenting”.

Vittorio Guidano (1991) concepisce il Sé come un sistema in auto-organizzazione che tende a preservare la propria coerenza interna nel tempo. In questo quadro la resistenza non è vista come opposizione ma come un tentativo del sistema personale di mantenere la stabilità delle proprie strutture affettivo-costruttive. Guidano sottolinea come la resistenza emerga quando il rinnovamento cognitivo-emotivo proposto dalla terapia rischia di compromettere la continuità narrativa del Sé, delineando dunque un meccanismo di protezione identitaria.

Complessivamente, gli approcci cognitivi e comportamentali non interpretano la resistenza come difesa inconscia ma come un insieme di processi che proteggono l’equilibrio attuale del Sé. Di conseguenza, l’intervento non mira a “vincere” la resistenza ma a comprenderne la funzione, esplorare l’ambivalenza e co-costruire motivazione e sicurezza nel cambiamento. La resistenza diventa così un segnale clinico utile, che orienta la relazione terapeutica e il ritmo del lavoro.

La psicologia motivazionale.

Sharon Brehm (1966) introduce il concetto di reattanza psicologica, intendendo con esso una spinta motivazionale a ristabilire la libertà percepita quando essa viene minacciata o limitata. Per questa autrice, quando una persona percepisce che qualcuno (terapeuta, genitore, istituzione) cerca di imporre un cambiamento, reagisce resistendo. La resistenza non viene quindi intesa come difesa o come una patologia ma come un atto motivato di autodeterminazione. Brehm, insieme a Hong e Page (1982) hanno operazionalizzato la teoria creando la Hong Psychological Reactance Scale (HPRS), una misura individuale stabile del livello di reattanza. Il concetto di resistenza viene in questo caso inteso come un tratto di personalità: alcune persone sono più inclini di altre ad opporsi a ogni forma di controllo o influenza.

Miller e Rollnick (1991; 2013) introducono il concetto di colloquio motivazionale (MI), all’interno del quale la resistenza è intesa come un “segnale” del terapeuta, non del cliente. Così come per altri infatti, anche per Miller e Rollnick quando il terapeuta adotta uno stile direttivo o impositivo il cliente reagisce con “resistenza”, chiamata da questi autori “sustain talk”, ovvero un linguaggio che esprime ambivalenza, non opposizione. L’obiettivo terapeutico in questo quadro non è quello di non combattere la resistenza, quanto di danzare con essa (“rolling with resistance”). L’MI interpreta la resistenza non come opposizione del paziente, ma come segnale di ambivalenza. Quando la resistenza aumenta, ciò indica che lo stile relazionale del terapeuta è percepito come troppo direttivo. L’intervento non consiste nel persuadere, ma nell’accompagnare il paziente nell’esplorare le proprie motivazioni, favorendo così l’ingaggio iniziale nel percorso di cura.

Vi è una prima distinzione tra la resistenza alla cura (il rifiuto di iniziare) e il dropout durante la terapia: sono state infatti condotte meta-analisi che evidenziano come la rinuncia precoce si verifichi più facilmente quando la proposta terapeutica non rispecchia le preferenze e i bisogni percepiti dal paziente, o quando l’alleanza è fragile già nelle fasi di primo contatto (Swift & Greenberg, 2012).

Prochaska e DiClemente (1984) descrivono la resistenza come una funzione dello stadio di cambiamento: questo atteggiamento non sarebbe da interpretare secondo la loro prospettiva come opposizione ma come un’incongruenza tra lo stadio del cliente e le strategie del terapeuta. Un paziente “resistente” è spesso per loro nella fase di “precontemplazione” — ovvero non ancora pronto al cambiamento.

Anche per Norcross (2002) la resistenza indica una discrepanza terapeutica, non un difetto del paziente. Questo autore estende il modello transteorico introducendo il concetto di “stage-matched interventions”, ovvero interventi calibrati sul livello di “prontezza” e resistenza del cliente.
Vi sono altri due autori della psicologia motivazionale che riteniamo utile citare: Arkowitz e Westra (2009). Essi hanno integrato il Motivational Interviewing con la CBT, sviluppando protocolli per clienti “resistenti” all’approccio cognitivo. La loro idea è che la resistenza derivi da ambivalenza non riconosciuta e che il terapeuta debba stimolare la motivazione piuttosto che imporre un cambiamento.

Tentando una sintesi di quanto proposto dalla psicologia motivazionale, questo approccio interpreta la resistenza come espressione dell’ambivalenza del cliente ma anche come tutela dell’autonomia personale. In questa prospettiva la resistenza diventa un indicatore relazionale e motivazionale che guida il terapeuta nell’adattare il proprio stile: la resistenza non va superata ma accolta e regolata, affinché il cambiamento possa diventare possibile senza minacciare il senso di autodeterminazione del paziente.

Citiamo infine Erickson (1976), il quale fu il primo a parlare della necessità di “utilizzare la resistenza”, riferendosi al fatto che ogni comportamento del paziente, dunque anche l’opposizione, può essere utilizzato a favore del cambiamento. Non si tratta per questo autore di “convincere” il paziente ma di seguire la sua logica e di condurlo, attraverso le proprie stesse resistenze, a una nuova soluzione. Invece di interpretare, dunque, Erickson ritiene indispensabile ridefinire e “reindirizzare” la resistenza, utilizzandola come energia terapeutica.

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Tutte le prospettive citate fino ad ora hanno in comune il fatto che leggono la resistenza del paziente come un processo interno al soggetto che si riverbera nel suo approccio alla terapia o come una dinamica che ha luogo tra paziente e terapeuta, nel “qui ed ora” della relazione terapeutica e del setting clinico, intendendo tale dinamica come influenzata grandemente dall’atteggiamento del terapeuta.

La psicologia sistemico-relazionale.

Questo approccio, pur non disconoscendo questi aspetti ed in particolare le dimensioni relazionali del rapporto terapeutico, sposta in modo rivoluzionario l’attenzione dal singolo al suo sistema di appartenenza, concettualizzando la resistenza come messaggio relazionale (più o meno implicito) che il paziente invia ad altri.

In continuità con le visioni precedenti la resistenza è stata interpretata da alcuni autori sistemici come messaggio rivolto al terapeuta, dunque un segnale relazionale che emerge nella seduta. In questo caso se il paziente si oppone, tace, non collabora ecc.. non si pensa che stia rifiutando il cambiamento per propri conflitti interni quanto piuttosto che stia comunicando qualcosa al terapeuta per cui quest’ultimo deve interrogarsi sul proprio modo di stare in relazione con il paziente. Questa prospettiva è tipica ad esempio dell’approccio “Open Dialogue” di Rober (2005) e Anderson (1997).

Peter Rober nello specifico propone una lettura della resistenza radicalmente de-patologizzata. In questa cornice la resistenza non è interpretata come opposizione o difesa ma come segnale di posizionamento dialogico: la resistenza indica come il paziente si sta situando nella relazione terapeutica. L’antidoto alla resistenza non consiste nel confrontare o interpretare la resistenza, ma nel coltivare una “postura not-knowing”, nella quale cui il terapeuta evita di imporre significati e si concentra sull’ascolto attivo dei processi di co-costruzione del senso. Rober sottolinea inoltre l’importanza del dialogo interno del terapeuta, ovvero la consapevolezza delle proprie risonanze e delle proprie reazioni, poiché sono spesso le mosse del terapeuta, quando rigide o direttive, ad irrigidire il sistema e a far emergere resistenza.

Jaakko Seikkula (Seikkula & Olson, 2003), che per primo ha introdotto l’approccio Open Dialogue, propone una lettura della “cosiddetta resistenza” che si colloca all’interno di conversazioni multi-attore. In questo modello ciò che appare come un comportamento di resistenza non rappresenta una difesa intrapsichica quanto piuttosto un segnale relazionale che informa su come il sistema stia regolando la propria sicurezza e la propria coerenza dialogica. Il compito del terapeuta non deve andare nella direzione di “forzare” il cambiamento (che attiverebbe contromosse di sistema e ulteriore chiusura), ma creare spazio dialogico in cui tutte le voci possano essere ascoltate senza pressione al risultato.

Nella prospettiva polyvagal-informed, che Seikkula integra nelle evoluzioni più recenti dell’approccio dialogico, i comportamenti “resistenti” possono essere compresi come risposte autonomiche protettive: segnali di allarme e di regolazione del sistema nervoso, più che opposizione. Questo approccio è valutato dalla letteratura come particolarmente utile nel lavoro con coppie e famiglie, dove la lettura della resistenza, intesa come tentativo di autoprotezione relazionale, permette al terapeuta di non colludere con l’escalation e di sostenere processi di co-regolazione emotiva.

Jay Haley, padre della terapia strategica breve (1963), propone di considerare la resistenza come una forma di comunicazione relativa a dinamiche di potere e in questa cornice ogni tentativo di cambiare una persona può attivare una lotta per il controllo della relazione. La chiave terapeutica è per l’approccio strategico costruire interventi paradossali che presuppongano la resistenza invece di contrastarla.

Su posizioni parzialmente diverse, Paul Watzlawick, John Weakland e Richard Fish, componenti storici del Mental Research Institute (MRI) di Palo Alto (anni ’50–’70), intendono la resistenza secondo una visione cibernetica e comunicativa (1974), portando ad una specifica visione di questo fenomeno. Essa viene intesa (insieme al sintomo, qualunque esso sia) come un tentativo di soluzione di un problema, il quale però paradossalmente mantiene attivo il problema stesso (first-order change). Per ottenere un vero cambiamento (second-order change), questi autori sostengono che sia necessario interrompere le logiche stesse di funzionamento del sistema.

La resistenza del paziente verso il cambiamento in chiave sistemica è stata però interpretata anche in un’ottica “funzionalista”, ad esempio dalla Scuola di Milano (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin, Prata, 1975 ), come un comportamento che serve in qualche modo al sistema familiare del soggetto: il paziente in questa prospettiva “resiste” al cambiamento in quanto impiegato a “lavorare” per altri al fine di mantenere specifici equilibri familiari, proteggendo così la stabilità del suo sistema di appartenenza, stabilità che verrebbe invece messa in crisi da eventuali cambiamenti del paziente.

Su questa linea Helm Stierlin, terapeuta familiare, sottolinea come la resistenza sia implicita nelle dinamiche familiari: un membro della famiglia può “resistere” ai cambiamenti per preservare le regole implicite del sistema (equilibrio, legami, identità ecc..). Stierlin non sempre utilizza il termine “resistenza” esplicitamente, ma lavora sui “modes of interaction” (modalità ricorrenti di interazione tra membri della famiglia) che “resistono” il cambiamento (1971).

Ivan Boszormenyi-Nagy, fondatore della terapia contestuale, lavora su concetti quali “lealtà invisibili”, “eticità relazionale” e “debiti/obblighi intergenerazionali”. Secondo questa prospettiva, le persone sono inserite in una rete di obblighi e reciprocità che sostengono l’appartenenza familiare. Per questo motivo il cambiamento terapeutico può incontrare resistenza quando rischia di violare tali equilibri etico-relazionali: il paziente può “non cambiare” non per opposizione personale, ma per preservare il senso di lealtà verso la propria famiglia (Boszormenyi-Nagy & Spark, 1973).

La terapia familiare contemporanea (post Selvini Palazzoli) mantiene una lettura della resistenza come fenomeno relazionale e sistemico. Diversi autori (ad esempio Ugazio, 1998; Seikkula & Olson, 2003; Omer, 2004; Rober, 2017) mostrano come la resistenza possa esprimere la necessità di proteggere legami significativi, identità narrative condivise o ruoli familiari minacciati dal cambiamento. In questa prospettiva, la resistenza non è un ostacolo alla terapia, ma un segnale della funzione di coerenza e continuità che il sistema familiare sta cercando di mantenere.

Tra gli autori appena citati, Valeria Ugazio (che si rifà alla tradizione del Modello di Milano) ha elaborato la teoria delle polarità semantiche familiari (1998). Questa autrice pur non parlando direttamente di resistenza al cambiamento sostiene che ogni famiglia vive le relazioni entro specifici “frame conversazionali” o “organizzazioni del significato” (le semantiche) che orientano i modi con i quali i suoi membri parlano, pensano, si comportano, sentono le emozioni e significano le esperienze. Le semantiche individuate da Ugazio sono quella della Libertà, del Potere, della Bontà e dell’Appartenenza. E’ possibile ritenere che la teoria delle polarità semantiche, individuando nei percorsi terapeutici la prevalenza di alcune semantiche su altre in una famiglia, possa anche spiegare la modalità con cui il sintomo (inclusa la resistenza) si esprime. Se un paziente mostra una certa resistenza (sia all’inizio del percorso che durante la terapia), essa è sempre coerente con la semantica prevalente nella famiglia. Ugazio afferma che le semantiche familiari non sono solo uno “sfondo”, ma sono fattori attivi e determinanti nelle conversazioni quotidiane: il paziente e i familiari adottano un linguaggio condiviso che può, nella fattispecie del nostro discorso, anche sostenere oppure ostacolare il cambiamento. In questo senso possiamo spingerci a dire che la resistenza non è solo un fenomeno interno al paziente, ma è condiviso e organico al sistema familiare: il paziente, anche con la sua resistenza, si muove sempre all’interno di una semantica familiare dominante. In questa cornice identificare quale semantica domini in una determinata famiglia può aiutare il terapeuta a comprendere cosa impedisce il cambiamento e le maggiori difficoltà che un trattamento potrebbe dover fronteggiare.

Considerazioni e precisazioni.

Questo spostamento dello sguardo sulla resistenza introdotto dalla prospettiva sistemica ci consente di formulare una considerazione importante: se adottiamo l’idea che la resistenza al cambiamento svolga una specifica funzione all’interno del sistema familiare del soggetto, allora per comprendere appieno tale comportamento diventa necessario incontrare tutta la famiglia e non solo il singolo paziente.

Possiamo poi fare una precisazione: quanto detto finora rispetto alle varie posizioni della psicologia sulla resistenza del paziente riguarda situazioni nelle quali il paziente resiste mentre accetta di seguire un percorso terapeutico. Nulla infatti è stato detto fino ad ora di quei pazienti che invece non intendono nemmeno iniziare un percorso terapeutico, pur risultando sintomatici.

Ovviamente anche questi pazienti sono da considerare “resistenti”. Di essi la letteratura si è occupata in modo minore, probabilmente perché non potendo interagire con loro, è difficile per gli psicologi, soprattutto per quelli che lavorano con il paziente singolo, costruire idee e linee di intervento valide.

La resistenza al cominciare una terapia (resistenza alla cura) è stata raramente collegata alle dinamiche familiari. Alcuni autori l’hanno esplorata soprattutto dal punto di vista del processo di richiesta d’aiuto. Ad esempio, la reactance theory (Brehm, 1966) chiarisce che quando una persona percepisce che la propria autonomia è minacciata o che qualcuno sta cercando di imporre un cambiamento, tende a opporsi. Di conseguenza, più genitori, insegnanti o clinici “spingono” verso la terapia, più il soggetto può rispondere con resistenza all’ingaggio. In questa prospettiva, il rifiuto di iniziare non è un comportamento irrazionale, ma un tentativo di preservare la propria autodeterminazione.

Più recentemente Rickwood e colleghi (2005), in un’ottica più psicosociale, hanno mostrato che molti giovani non accedono ai servizi per fattori come stigma, preferenza per l’auto-gestione, scarsa literacy psicologica e sfiducia verso le figure professionali. Il processo di help-seeking è infatti graduale e può interrompersi ben prima dell’ingaggio terapeutico: in questi casi si parla di rifiuto di iniziare la cura.

La Nonviolent Resistance (NVR).

In generale ma soprattutto quando in cui il rifiuto riguarda bambini e adolescenti, la psicologia sistemica ritiene che il problema non riguardi solo l’individuo, ma la sua rete relazionale.

In questo quadro, accanto alle più note metodologie di intervento familiare, la psicologia sistemica ha elaborato alcuni approcci di rilievo operativo.

A titolo di esempio citiamo la Nonviolent Resistance (NVR) di Haim Omer (2004), una metodologia centrata sul lavoro con i genitori/caregiver quando il giovane non vuole entrare o partecipare alla terapia. L’obiettivo non è convincere il ragazzo, ma aumentare la presenza genitoriale, ridurre l’escalation e creare un contesto che renda il cambiamento possibile e non minaccioso. Omer propone una forma di intervento familiare che utilizza la presenza vigile, la non-escalation e la rete di supporto per contrastare comportamenti violenti, coercitivi o autolesivi degli adolescenti. In questa prospettiva, la resistenza non implica opposizione o conflitto di potere, ma è intesa come una posizione relazionale ed etica: i caregiver resistono alla violenza senza contrattaccare, attraverso fermezza, trasparenza e coesione comunitaria.

Se Omer elabora il principio della resistenza etica e comunitaria come alternativa alla lotta di potere nelle relazioni familiari, Wim Beckers (2015), un autore che si colloca in continuità con Omer mantenendo il riferimento alla Non-Violent Resistance (NVR) come pratica relazionale orientata alla presenza non-escalativa, propone una cornice esplicitamente sistemica proponendo una visione originale della “resistenza”, intesa come un incremento della presenza genitoriale nella relazione con i figli: in questo quadro, il contrasto alla violenza e alle intemperanze non avviene attraverso il controllo ma tramite la stabilizzazione della posizione del caregiver e il rafforzamento della rete di sostegno: la “resistenza” diventa così atto relazionale di cura e non opposizione.

La psicologia culturale e sociale.

Secondo questa prospettiva la resistenza viene letta come risposta al contesto culturale contemporaneo, non solo familiare. I modelli educativi attuali sono passati da sistemi normativi a sistemi affettivi e negoziali all’interno dei quali i genitori oggi tendono più a proteggere e comprendere e meno a porre limiti. Ciò deve essere messo in relazione con il fatto che oggi cresce la pressione performativa (successo, realizzazione personale, confronto costante sui social media) ottenendo il risultato che molti adolescenti oggi vivono un conflitto tra autonomia e dipendenza e possono arrivare ad esprimere resistenza come rifiuto ad essere “formati”, guidati, cambiati. In questo senso la resistenza non è sintomo psicologico, ma un atto identitario (Scabini, Cigoli, 2000).

Il punto della situazione.

La prospettiva sistemico–relazionale propone una lettura della resistenza non come un atto psichico individuale quanto piuttosto collegato al modo in cui il paziente è collocato e funziona all’interno della sua famiglia.

Come abbiamo visto, quando un paziente accetta di iniziare una terapia ma durante il percorso si oppone al cambiamento (ad esempio parlando poco, non riflettendo su ciò che accade, saltando gli appuntamenti, oppure rimanendo “fermo” nella sua sintomatologia e nei suoi comportamenti) si parla di un tipo di resistenza che potremmo definire nella cura.

In molti casi, secondo l’approccio “funzionalista”, il sintomo o il blocco del paziente svolgono una funzione omeostatica, ovvero mantengono un equilibrio relazionale che, pur essendo disfunzionale o doloroso, permette alla famiglia di restare coerente nel tempo.
Questa prospettiva spiega bene perché il cambiamento del paziente può risultare pericoloso per il sistema familiare: se egli “si muove”, anche gli altri dovranno farlo, mettendo in discussione precedenti assetti e attribuzioni di ruolo.

La resistenza dunque, anziché essere un semplice freno interno, può diventare un modo per preservare alleanze familiari implicite (es. madre–figlio contro padre), un modo per non mettere a rischio un fragili equilibri (es. conflitti di coppia che rimangono sopiti “grazie” al sintomo), un segnale di lealtà familiare (es. “se guarisco, tradisco la storia della mia famiglia”) o un argine contro il rischio di cambiamenti vissuti come minacciosi.

In altre parole il paziente resiste non solo perché non vuole cambiare per ragioni proprie, ma perché non può cambiare da solo. A cambiare dunque deve essere l’intero suo sistema di riferimento. Per questo motivo nella resistenza nella cura il paziente spesso collabora quel tanto che basta a lasciare le dinamiche in famiglia invariate. Questo può portare la terapia ad una situazione di stallo: si parla, si riflette, ma nulla si trasforma realmente. Quando ciò accade, lavorare solo sul paziente non è sufficiente mentre diventa fondamentale coinvolgere la famiglia esplicitando in alcuni casi il ruolo relazionale del sintomo (che cosa mantiene, che cosa protegge, che cosa impedisce al paziente di cambiare) e spostando il focus dal “perché non cambia?” al “che cosa cambierebbe se cambiasse?” ecc… In questo quadro il punto è costruire nuove condizioni relazionali che rendano il cambiamento possibile e sicuro.

La resistenza diviene così un indicatore di funzionamento del sistema, e il compito terapeutico consiste nell’ampliare lo spazio conversazionale affinché nuove forme di significato e di relazione possano emergere. In questo modo il cambiamento non viene imposto, ma co-costruito.

La nostra proposta: la “Teoria della Resistenza” (TR).

In molti casi la resistenza del paziente, sia che essa riguardi il frequentare le sedute “senza profitto” sia il rifiuto di iniziare una terapia, è stata concettualizzata in modo del tutto sovrapponibile.

Noi proponiamo invece di trattare in modo distinto le due grandi forme di resistenza che un paziente può mostrare nei confronti della terapia: la resistenza nella cura, ovvero il caso in cui il paziente accetta formalmente di fare una terapia ma, in modo più o meno esplicito, ne ostacola il processo, e la resistenza alla cura, ovvero il rifiuto del paziente anche solo ad iniziare un trattamento. Questi concetti e i relativi significati relazionali che sono stati ad essi associati sono parte della “Teoria della Resistenza” formulata da uno di noi in altre sedi (Schneider, 2024; 2025).

Schematicamente adottiamo la prospettiva sistemica sulla resistenza intendendo che la resistenza nella cura svolga una funzione “omeostatica” in quanto contribuisce a mantenere invariati gli equilibri relazionali familiari, mentre proponiamo che la resistenza alla cura, per via del fatto che sono altri e non il paziente (il quale rifiuta il percorso) ad attivarsi per cercare una soluzione al problema, vada intesa come avente come caratteristica principale quella di perturbare l’equilibrio familiare, creando in questo modo una condizione che getta le basi affinché la famiglia sia di fatto “costretta” ad individuare equilibri familiari alternativi rispetto al passato. In questo senso il rifiuto del paziente alla cura diviene paradossalmente il motore del cambiamento, perché, stante una situazione sintomatologica normalmente di rilievo e la resistenza del paziente ad iniziare una cura, rende impossibile il perpetuarsi dei precedenti assetti relazionali ed equilibri familiari, avviando il sistema alla necessità di nuovi assetti ed equilibri.

Conclusioni.

Questo breve excursus all’interno di alcune voci dei principali orientamenti psicologici mostra come il concetto di resistenza sia passato da una lettura intrapsichica (difesa del soggetto e/o dell’Io contro contenuti dolorosi) a una comprensione relazionale ed esperienziale, fino a una prospettiva sistemica per la quale il comportamento del paziente è parte di equilibri familiari, identitari e culturali più ampi.

Per la psicoanalisi la resistenza è un comportamento da elaborare; negli approcci umanistico–esperienziali è un segnale di protezione dell’esperienza interna; nei modelli cognitivo–motivazionali è indice di ambivalenza, credenze e allineamento terapeutico; nei modelli sistemici e dialogici diventa messaggio del campo relazionale, spesso funzionale alla coerenza del sistema.

Noi proponiamo di distinguere operativamente tra resistenza nella cura (con funzione omeostatica rispetto alla famiglia) e resistenza alla cura, come atto propositivo per un cambiamento profondo degli equilibri familiari.

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[1] Marco Schneider, Psicologo e Psicoterapeuta sistemico-relazionale, docente in diverse scuole sistemiche di specializzazione in psicoterapia, ha lavorato per oltre 20 anni in Servizi Pubblici e privati italiani per la famiglia e l’adolescenza problematica, tra cui “SOS Telefono Azzurro” (occupandosi di bambini scomparsi e di giovani autori di reato), il Numero “114 Emergenza Infanzia” (Min. Politiche per la Famiglia) in qualità di operatore senior per le emergenze, la Neuropsichiatria infantile territoriale dell’Ospedale di Rho (Mi), la Tutela dei Minori ed il Penale Minorile – Ambito Territoriale di Cinisello Balsamo (Mi), in qualità di psicologo referente e presso l’IPM “C. Beccaria” di Milano. Il Dott. Schneider si occupa di psicoterapia della famiglia, di adolescenti resistenti e non collaboranti e di adolescenti violenti contro i genitori (violenza “filio-parentale”). E’ Caporedattore della rivista scientifica “Quaderni SIRTS”, membro del Board della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica, socio EFTA (European Family Therapy Association), socio SIPPR (Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale) e Direttore Scientifico del Master di Alta Formazione in Psicologia “Clinica Sistemica dell’Adolescenza” per l’ente di formazione Spazio Iris – Milano.

[2] Carlotta Rota, Dottore in Scienze e Tecniche Psicologiche, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; trainee presso lo Studio Dott. Schneider.

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